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Farmacie, liberalizzazioni tra ricette miracolose e tenuta del mercato

di Ettore Jorio (Università della Calabria)

Il problema della liberalizzazione delle farmacie, intendendo per tale la compressione del quorum utile a prevedere il loro numero sul territorio comunale (sino a ridurlo a 1.500-2.000 abitanti) nonché la possibilità di vendita cash altrove dei farmaci soggetti a prescrizione medica, sta generando malumori anche tra ministri. La Lorenzin ha correttamente protestato all'indirizzo della collega Guidi per la troppa autonomia con la quale quest'ultima intendeva procedere sull'argomento. Risultato, nel molto prossimo Ddl sulla concorrenza il tema del riordino del sistema farmacie non sarà trattato, con buona pace di chi teorizza rivoluzioni senza essersi sporcato le mani sull'argomento.

Questo è quanto avviene sul versante politico. Diversamente accade in termini di confronto scientifico. Abbondano le teorie a confronto sviluppate soprattutto dagli economisti, distinti tra chi propone, per l'occasione, ricette miracolose per rinsavire la spesa pubblica salutare e chi sottolinea i pericoli della tenuta del mercato caratteristico. Sono corrette entrambe le preoccupazioni che generano siffatti interventi.

E', infatti, sotto gli occhi di tutti un sistema sanitario che dimostra ogni giorno la sua insostenibilità e che, proprio per questo, ha bisogno di interventi legislativi che lo migliorino. Ma di quelli che lo riformino strutturalmente e non già di quelli che propongono la potatura di qualche tralcio con il verosimile rischio di rovinare la vite. Supporre, poi, di intervenire ex abrupto sui soggetti professionali protagonisti che si rendono da cinquantanni garanti del livello di assistenza farmaceutica è oltremodo pericoloso.

Prima di farlo occorrerebbe tenere conto di quanti sono i Comuni che godono di una unica sede farmaceutica; di quanti ne hanno più di una delle quali tante a rischio di sopravvivenza reale; di quanti di questi comuni sono ubicati nelle otto regioni sottoposte a piano di rientro e, più precisamente, nelle cinque regioni commissariate che contano circa 30 milioni di abitanti e che non garantiscono la puntualità dei pagamenti.

E ancora. Di quante di queste regioni hanno una rete assistenziale, territoriale e ospedaliera degna di questo nome e quante farmacie funzionano ivi da tampone esercitando il ruolo anche di ciò che non è mai esistito. Non solo. Bisognerebbe tenere conto dello stato di salute dell'impresa farmacia, oppressa da stati patrimoniali così appesantiti da non potere più andare avanti; da conti economici che per farli quadrare necessiterebbero di qualche miracolo.

Al riguardo, sarebbe utile e costruttivo affrontare l'argomento tenendo conto di quante sono le farmacie già fallite, quelle che falliranno di qui a poco e di quelle che hanno già fatto ricorso ovvero ricorreranno a concordati preventivi nelle diverse specie. Una conta difficile atteso che allo stato raggiungono già qualche centinaia.

Solo a seguito di una siffatta generale analisi potremmo scambiarci il guanto e affrontare il tema specifico. Capiremmo tutti di stare più attenti nell'idealizzare e proporre soluzioni, spesso irreali. Comprenderemmo che per supporre di sostituire l'assistenza farmaceutica di territorio con presidi alternativi occorrerebbe che ci fossero le strutture pubbliche destinate a farlo. Strutture che non ci sono e che, ove esistono, sono destinate ad essere dismesse al fine di portare a conclusione quel processo di deospedalizzazione che vorrebbe l'assistenza tipica assicurata nella soglia massima omnia del 3,7 posti ogni mille abitanti.

Dunque, nessuna postazione pubblica sostitutiva capace di prendere il posto delle migliaia di farmacie i cui bilanci non sopporterebbero alcuna condizione economica al ribasso. Credere in tali surrogazioni significa non avere mai assistito a una somministrazione di farmaco al pubblico perfezionata in un qualsivoglia paesino montano.

Discorso a parte merita la demolizione strutturale dell'attuale sistema. Ciò che ha garantito i cittadini, in termini di capillare assistenza nella somministrazione del farmaco, è il sistema fondato sul regime concessorio. A liberalizzarne l'esercizio verrebbero meno le condizioni di certezza che l'autorità pubblica, oggi la Regione, rimanga titolare del relativo diritto, da esercitare attraverso le farmacie concessionarie, pubbliche e private. Una logica giuridica che ha assicurato l'attuale livello di funzionamento e salvaguardato l'incondizionata aggressione dei maggiori agenti del mercato. Quelli abituati a collezionare, sic et simpliciter, quote e segmenti attraverso i quali decidere l'offerta e condizionare la domanda.

Una metodologia impropria nel processo di generazione della salute, tanto che nell'esercizio dell'attività prettamente medica (solo per fare qualche esempio: case di cura, diagnostica chimico-clinica e per immagini, professioni eccetera) sono stati previsti nell'ordinamento seri strumenti di regimentazione e regolazione dell'offerta, individuati nell'autorizzazione all'esercizio dell'attività specifica, nell'accreditamento istituzionale e nei contratti disciplinanti le prestazioni offerte e la loro retribuzione. Tutti condizionati dal fabbisogno epidemiologico esistente. Liberalizziamo anche quelli?