Aziende e regioni

Il caso dello SportelloDonna al S. Camillo di Roma: un successo travagliato

di Manuela Perrone

In attesa di un Piano nazionale e di una strategia complessiva, la rete antiviolenza in Italia continua a vivere appesa a progetti, contributi "emergenziali" e, quando c'è, alla buona volontà regionale. I travagliati cinque anni e mezzo di vita dello SportelloDonna dell'azienda ospedaliera San Camillo, fotografati in un dossier, lo testimoniano. Nato nel novembre 2009 per volontà di Maura Cossutta, che al pronto soccorso dell'ospedale romano ha portato il modello elaborato dalla Commissione sulla salute della donna istituita dalla ministra Livia Turco nel 2008, lo SportelloDonna h24 – gestito dall'associazione BeFree guidata da Oria Gargano - ha offerto uno spazio dedicato alle donne, accolte da operatrici specializzate (psicologhe, psicoterapeute, assistenti sociali, mediatrici culturali ed educatrici), ma anche la possibilità di assistenza legale gratuita. In tutto fino a oggi, come si evince dal report "No, non sono scivolata nella doccia" - le donne seguite sono state quasi 2mila.
Un successo, ma il finanziamento è stato una via crucis. Fino al 2011 lo Sportello è stato finanziato dalla Regione, poi i fondi sono stati sospesi. Il servizio è stato svolto in maniera gratuita fino a luglio 2012, quando BeFree è stata ammessa al finanziamento biennale bandito dal Dipartimento Pari opportunità. A novembre 2014 nuova emergenza, tamponata prima con campagne di autofinanziamento e poi con il sostegno fondamentale della Ong Intervita-WeWorld per un anno. Che però ha comportato la riduzione oraria dello Sportello, oggi attivo 8-20. A luglio l'aiuto di WeWorld finirà. E poi?
«La violenza è un problema di sanità pubblica - ha spiegato Cossutta - e nella sanità pubblica chi investe risparmia. Le istituzioni si devono sentire impegnate. Le buone pratiche devono diventare azioni di sistema». Ne è convinto anche il direttore generale del San Camillo, Antonio D'Urso, che ha elogiato l'iniziativa e auspicato il supporto necessario.

L'impegno della Regione Lazio
. Da Flori Degrassi, direttore "Salute e integrazione sociosanitaria" della Regione Lazio, è arrivato pieno sostegno: «Mi impegno a far diventare questa un'esperienza diffusa nei pronto soccorso per far sì che le donne abbiano un'alternativa a una vita da incubo». Cecilia D'Elia, consulente del governatore Nicola Zingaretti per i diritti di genere, ha ricordato la legge regionale 4/2014: «Manca un sistema, che faticosamente stiamo cercando di costruire. Le diverse esperienze si devono parlare. Speriamo nei prossimi giorni di istituire la cabina di regia regionale prevista dalla legge per un monitoraggio e la redazione di linee guida». Se l'assessora alla Cultura Lidia Ravera ha evidenziato l'importanza di «uno sportello amico, di un ospedale amico dove le donne sentano affetto e rispetto, anche delle loro risibili bugie», la consigliera regionale di Sel Marta Bonafoni ha sottolineato il cuore delle norme laziali: «Una presa in carico che non sia assistenza ma affiancamento, un investimento nella formazione del personale, équipe multidisciplinari». L'ascolto delle donne, il rispetto dei loro tempi. Sulla ricetta sono tutti d'accordo: il problema è coordinare le varie esperienze cresciute spontaneamente nel tempo, facendone tesoro, e far dialogare i diversi livelli istituzionali. «Roma non è in condizioni disastrose», ha chiarito Alessandra Cattoi, assessora comunale al Patrimonio, alla comunicazione e alle pari opportunità. «Ci sono tante realtà continuamente precarie che però funzionano e fanno rete. Io dico che bisogna smetterla di fare progetti: è fallimentare l'idea che con i progetti finanziamo i servizi. Aggiungo che vivo con frustrazione il problema del coordinamento con i gradi più elevati del mio. Spesso non so cosa faccia la Regione. L'area metropolitana è il livello che va coinvolto».

L'esperienza della Toscana. Al convegno ha preso parte anche Vittoria Doretti, l'anestesista dell'Asl 9 di Grosseto che ha creato il Codice rosa, poi diventato la prassi in tutta la Toscana. «Ci ha guidati – ha detto - l'idea che lo Stato deve prendersi cura di chi è più vulnerabile: io sono un dipendente pubblico, un umilissimo medico del Ssn. E ci ha guidati la convinzione che da soli si perde, in squadra si vince«. Una squadra, quella del Codice rosa, che coinvolge ospedale, 118, forze dell'ordine, procure, centri antiviolenza. Doretti non è entrata nel merito di quale sia il modello ospedaliero migliore di accoglienza delle donne che hanno subito violenza, ma ha detto: «Dobbiamo trovare tecniche che vadano bene a Milano come a Sessa Aurunca. E scommettere sulla formazione: la lotta alla violenza di genere necessita di un replanning continuo». Anche perché spesso i muri e le gabbie degli stereotipi sono costruiti proprio dalle donne.