Sentenze

Corte Ue: il disabile che lavora in un centro di aiuto ha diritto all'indennità per ferie

di Marina Castellaneta (Quotidiano del diritto, Il Sole 24 Ore Guida al diritto)

Una persona ammessa in un centro di aiuto attraverso il lavoro, che accoglie individui disabili con capacità lavorativa limitata, ha diritto a ottenere l'indennità per le ferie annuali a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Questo perché anche chi svolge attività in questi centri, in tutti i casi in cui intraprenda funzioni non marginali e accessorie, deve essere considerato lavoratore ai sensi della direttiva n. 2003/88 su taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, recepita in Italia con Dlgs 66/2003, modificato dal Dlgs 213/2004. Una precisazione che arriva dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza del 26 marzo 2015 (C-316/13, Fenoll) in risposta a un rinvio pregiudiziale della Corte di cassazione francese, che ha consentito a Lussemburgo di fornire alcuni chiarimenti sulla nozione di lavoratore e sulla portata della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, divenuta vincolante a seguito dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona.

La vicenda all'origine della pronuncia. Un cittadino francese con alcune disabilità era stato accolto in un centro di aiuto attraverso il lavoro (Cat) dove aveva svolto alcune attività per quasi dieci anni. Durante questo periodo aveva goduto di 5 settimane di ferie retribuite. Cessata l'attività, aveva chiesto le somme a lui dovute per le ferie retribuite delle quali, in un determinato periodo, non aveva usufruito a causa di una malattia. Tuttavia, tra il centro e il ricorrente non vi era accordo: il centro sosteneva che l'uomo aveva diritto a sei giorni di ferie retribuite sui 78 giorni lavorati. Il ricorso del lavoratore era stato respinto dal tribunale di Avignone. Di qui l'azione dinanzi alla Corte di cassazione: centrale l'interpretazione della direttiva n. 2003/88, che si applica a tutti i settori di attività pubblici e privati, in base alla quale, ad avviso del ricorrente, egli avrebbe avuto diritto alla compensazione delle ferie non godute a causa della malattia.

La nozione di lavoratore in base al diritto Ue. Prima di risolvere la questione specifica sulla compensazione delle ferie non utilizzate, la Corte di giustizia si è soffermata sulla nozione di lavoratore. Come è noto, la nozione del diritto dell'Unione è variabile ed è così necessario fare riferimento ai singoli atti che vengono in rilievo. Per quanto riguarda la direttiva n. 2003/88, chiarito che l'interpretazione deve avvenire nel contesto del diritto dell'Unione perché non è effettuato alcun rinvio agli ordinamenti nazionali (si veda, in tal senso, anche il rapporto sull'attuazione della direttiva adottato dalla Commissione europea il 21 dicembre 2010, Sec(2010)1611) e che, però, la stessa direttiva non fornisce una nozione, la Corte ha stabilito che la qualifica di lavoratore va effettuata tenendo conto di criteri obiettivi come i diritti e gli obblighi delle persone interessate. In particolare, la nozione di lavoratore deve essere desunta da criteri oggettivi, reali ed effettivi, aderendo a un'interpretazione ampia, pur escludendo la possibilità di considerare lavoratore colui che svolge «attività talmente ridotte che esse appaiono puramente marginali e accessorie». Tra i criteri da prendere in considerazione ai fini della qualificazione, va tenuto conto del fatto che la persona fornisca «per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione».

La premessa della Corte porta alla conclusione che non è sufficiente limitarsi a un approccio meramente formale ma è indispensabile, per il giudice nazionale alle prese con una controversia in cui si tratta di decidere se concedere taluni diritti al ricorrente in quanto lavoratore, partire dall'inquadramento del soggetto che rivendica gli indicati diritti. Di conseguenza, per non violare il diritto dell'Unione, è necessario procedere a un approccio globale volto a considerare ogni circostanza e, in primo luogo, le attività svolte e i rapporti con le altre parti in causa. Non basta escludere che un soggetto possa essere considerato come lavoratore per il solo fatto che - come nel caso di specie - non sono applicabili tutte le regole proprie del codice del lavoro poiché può ben trattarsi di un lavoratore sui generis. Inoltre, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza Kiiski del 20 settembre 2007 (causa C-116/06) ha avuto modo di affermare che il carattere sui generis di un rapporto di impiego in base al diritto nazionale non ha conseguenze sulla qualità di lavoratore in base al diritto dell'Unione.

Nel caso di specie - osserva la Corte - il ricorrente ha svolto la sua attività per cinque anni consecutivi durante i quali ha ottenuto congedi annuali retribuiti. Le sue attività sono state svolte sotto la direzione della struttura risultando così evidente che l'uomo era inquadrato nella struttura organizzativa e aveva ottenuto una remunerazione anche se al di sotto del salario minimo garantito in Francia, condizione che, però, non vale a escludere la qualifica di lavoratore. Va poi aggiunto che la produttività più o meno elevata o l'origine delle risorse che consentono di concedere una remunerazione o il suo carattere limitato non sono elementi in grado di incidere sulla qualificazione di lavoratore.

La Corte di giustizia ha poi escluso l'applicazione della sentenza Bettray del 3 maggio 1989 (C-344/87) nella quale veniva in rilievo la direttiva n. 89/391/Cee, concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. In quell'occasione è stato stabilito, in relazione alla concessione di un permesso di soggiorno a un cittadino Ue che si trovava in un centro terapeutico di recupero di tossicodipendenti, che non si trattava di attività lavorative in quanto non erano «attività economiche reali ed effettive, dal momento che rappresentavano solo uno strumento per la rieducazione o il reinserimento degli interessati e che il lavoro retribuito, modellato sulle capacità fisiche e psichiche del singolo, aveva come finalità il recupero, in tempi più o meno lunghi, della capacità di occupare un posto di lavoro ordinario o l'accesso a un'esistenza il più possibile normale». Si trattava, quindi, di una situazione del tutto peculiare che non ha avuto mai un'ampia applicazione. A ciò si aggiunga che la Corte, nella sentenza Isère del 14 ottobre 2010 (C-428/09), ha stabilito che la nozione di lavoratore formulata nella direttiva n. 89/391 non è trasponibile alla direttiva n. 2003/88 che non effettua alcun rinvio alla prima direttiva, con la conseguenza che la nozione contenuta nel primo atto non è applicabile al successivo.

Nel caso della sentenza C-316/13, le attività reali ed effettive del ricorrente, le uniche a poter essere prese in considerazione, non erano marginali e accessorie ed avevano una certa utilità economica, anche se si trattava di attività riservate a talune persone. Lo stesso centro, d'altra parte, procedeva a una remunerazione solo con riguardo alle persone abili al lavoro chiamate poi a svolgere specifiche attività all'interno del centro. Alla luce di quanto precede la Corte ha ritenuto che il ricorrente della causa principale dovesse essere considerato lavoratore ai sensi dell'articolo 7 della direttiva n. 2003/88 e dell'articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali. Questo vuol dire che va applicato l'articolo 7 in base al quale «gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro».

L'applicazione della Carta dei diritti fondamentali. Risolto il quesito riguardante la qualifica di lavoratore, la Corte è passata ad analizzare la seconda e forse più complessa questione relativa alla possibilità di invocare, in una controversia tra privati, l'articolo 31 della Carta. La norma in esame, dopo aver stabilito che il lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane ed eque, dispone che «2. Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite». Sul punto la Corte, confermando le conclusioni dell'avvocato generale Mengozzi rese il 12 giugno 2014, ha affermato l'inapplicabilità ratione temporis della Carta perché le rivendicazioni del ricorrente riguardavano un periodo precedente l'entrata in vigore della Carta avvenuta il 1° dicembre 2009 (le attività, invece, erano state svolte tra giugno 2004 e maggio 2005). Impossibile così disporre - come osserva Mengozzi - «un effetto diretto orizzontale retroattivo». Tuttavia, va segnalato che, nel dispositivo, la Corte di giustizia, in relazione alla nozione di lavoratore, richiama sia l'articolo 7 della suddetta direttiva sia l'articolo 31, paragrafo 2 della Carta dei diritti fondamentali per ritenere che si trattava di un lavoratore avente diritto al congedo per le ferie retribuito.

La Corte poi indica al giudice nazionale come procedere all'applicazione del diritto dell'Unione tenendo conto che, nei casi in cui il diritto nazionale non può essere interpretato in modo conforme al diritto dell'Unione e, quindi, all'articolo 7 della direttiva n. 2003/88, la norma non può essere applicata in una controversia tra privati. Di conseguenza, al ricorrente non resta che agire per ottenere il risarcimento del danno subito a causa della non applicazione del diritto Ue da parte dello Stato membro interessato in linea con la giurisprudenza Francovich, con la conseguenza di far valere la responsabilità degli Stati membri dinanzi ai giudici nazionali.


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