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Il tardo risveglio dell'Oms sul virus Ebola

di Nicoletta Dentico, vice-presidente Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg) e Daniel Lopez Acuña, esperto indipendente di salute pubblica, già funzionario Oms

L'infermiera della Sierra Leone Rebecca Johnson prende la parola dopo Margaret Chan e il rappresentante del Segretario Generale dell'Onu per Ebola, David Nabarro. Racconta la sua storia e spiega che cosa significhi il virus dell'Ebola, dal punto di vista dell'operatrice sanitaria, della paziente che ha contratto il virus al lavoro, della persona che è riuscita a vincere la malattia. All'Oms, la sala stracolma di delegati e funzionari di tutto il mondo ascolta in silenzio uno dei rari momenti di connessione autentica con la realtà. C'è molta vocazione sloganistica alla Sessione Speciale del Consiglio Esecutivo dell'Oms dedicato all'Ebola, organizzata domenica 25 gennaio a Ginevra, prima del 136° Consiglio Esecutivo. Opportunamente lo sottolinea il delegato della Namibia. L'incontro è motivato dall'inatteso impatto del contagio – 21.689 casi e 8.626 morti, secondo il report dell'OMS del 21 gennaio – e dalle numerose difficoltà della risposta internazionale al virus, che hanno prodotto un'azione tardiva e inefficace. Ma anche questa sessione speciale, per fare il bilancio, impegnare la comunità internazionale a un nuovo sforzo collettivo e affrontare meglio le prossime emergenze sanitarie, arriva decisamente in ritardo. Il contagio aveva già intrapreso il suo cammino un anno fa, ma né il Consiglio Esecutivo a gennaio, né l'Assemblea Generale del maggio 2014, hanno riservato la necessaria attenzione al virus Ebola. In un pianeta interconnesso, è ormai evidente a tutti che l'epidemia in un singolo paese ha buone chance di diventare un'epidemia globale.

Un senso di collettivo fallimento ha pervaso il dibattito nella lunga giornata di discussione, quasi una catarsi diplomatica mondiale. La lentezza del mondo – inclusa l'Oms- alla rapida avanzata dell'epidemia è stata denunciata dalla direttora generale dell'Oms, Margaret Chan. La delegata inglese ha parlato di «vergogna» («we stand ashamed at all levels»), il rappresentante di MSF di una "negligenza globalizzata" e dell'evidente «assenza di un meccanismo concertato di reazione alle emergenze sanitarie».
L'epidemia dell'Ebola, in declino ma non ancora sconfitta («è molto pericoloso se cominciamo a usare il passato remoto», ha commentato Nabarro), si è lasciata dietro una devastazione umana e sociale inenarrabile, di cui i paesi colpiti devono farsi carico con meno personale sanitario e le ferite talora brucianti di una gestione improvvisata, non coordinata, spesso non gestita dalle autorità locali. La questione della fiducia è stata nominata a più voci nel corso dell'incontro. Certo Ebola costringe i governi alla narrazione diffusa – anch'essa per certi versi catartica – secondo cui è il rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali la sola realistica ed efficace strategia in grado di prevenire gli effetti inattesi di contagi come quelli dell'Ebola, e l'insorgere di simili emergenze nel futuro. Purtroppo non sembra però che la comunità internazionale riunita a Ginevra abbia colto fino in fondo le implicazioni di questo discorso.

La risoluzione approvata domenica, dopo sfibranti consultazioni fino alla luce dell'alba, ha un'impronta fortemente emergenziale. Fa tesoro dei molti insegnamenti del 2014, e chiede più agili modalità di intervento. Ma non dice nulla sulle ragioni dello sconquasso dei sistemi sanitari in Africa occidentale, sulle politiche disastrose imposte nei decenni passati, sull'impatto devastante delle guerre, e lo scarso impegno della comunità internazionale per la ricostruzione. Chiede la messa a punto di un contingente di 1500 riservisti della salute su scala globale e la creazione di un fondo speciale di 100 milioni di dollari. L'approccio è comprensibile e forse non è tempo di sottigliezze. Ma gli strumenti vincolanti come i Regolamenti Internazionali Sanitari (International Health Regulations), introdotti dopo il panico della Sars, esistono già in seno all'Oms e sono il dispositivo da rafforzare – con impegno politico e investimenti finanziari - per rispondere alle crisi, in un'ottica di sistema appunto e non di singola patologia. La crisi dell'Ebola ha fatto emergere in tutta la sua portata, solo per fare un esempio, la crisi emorragica del personale sanitario, che in Africa ha pagato un prezzo altissimo a causa del virus. L'urgenza di metter mano a questa voragine con una formazione del personale medico e infermieristico proporzionata alle sfide e continua, con una forte strategia di supporto anche attraverso salari dignitosi e non occasionali, è una questione che non riguarda soltanto Ebola. Il tema investe la stessa forza contrattuale del personale sanitario locale nei momenti di emergenza, anche nei confronti del personale straniero presente per interventi d'urgenza a termine. Infine, non bastano i riservisti sanitari per rispondere alle crisi umanitarie. Le forze armate hanno un ruolo da giocare, ma con criteri di ingaggio chiari e coordinati a livello internazionale: le vicende in Africa Occidentale dicono quanto sia necessario mettere ordine su questo terreno.

La discussione al Consiglio Esecutivo ha messo in mostra tutta la sensibilità politica del tema Ebola e della sua debole gestione anche su un altro piano, più geopolitico. Per alcuni stati membri, Ebola è un'occasione imperdibile per forzare un'agenda di ridefinizione del mandato dell'OMS e imprimere una robusta accelerazione al processo di riforma dell'agenzia. Il delegato statunitense, direttore del Center for Disease Control and Prevention, lo ha detto a chiare lettere. Servono «drastici cambiamenti» per rendere l'Oms «l'organizzazione di cui abbiamo veramente bisogno»: tecnica, non politica. Il controverso obiettivo, condiviso da un piccolo ma influente gruppo di paesi donatori, è fare dell'Oms un'agenzia più snella, gestita con dinamiche da impresa, aperta all'interazione con il settore privato, in tutte le sue varie forme. In uno scenario popolato da attori nuovi e diversi, che operano con modalità del tutto separate, l'OMS non può pretendere di essere la sola istituzione a marcare il terreno della salute.
Se la crisi dell'Ebola insegna qualcosa, invece, è che il mondo ha bisogno di una OMS meno frammentata, forte di un'operatività coerente ed efficace, forte di un convinto sostegno da parte degli stati membri. La balcanizzazione della salute globale, da venti anni ormai frantumata in una miriade di partnership sanitarie basate su singole malattie, ha fortemente compromesso a tutti i livelli l'agibilità politica dei governi in campo sanitario, e complicato fatalmente ogni realistica possibilità di coordinamento della salute pubblica internazionale.