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La guerra del fumo: disfida tra Philip Morris e Uruguay

di Barbara Gobbi

È una questione di centimetri, in più o in meno. Ma sono centimetri che pesano. E possono fare tendenza in tutto il mondo. Perché nel quadrilatero Montevideo-Losanna-Washigton-Mosca sta andando in scena un braccio di ferro sul packaging delle sigarette destinato a fare la storia nel cruciale dilemma tra tutela della salute pubblica e protezione degli interessi commerciali internazionali.
Da una parte la big dei big del tabacco, Philip Morris; dall'altra l'Uruguay, piccolo Stato sudamericano di 3,5 milioni di persone che ha deciso di mostrare i muscoli, prendendo molto sul serio il trattato internazionale del maggio 2003 per la progressiva messa a bando del fumo, l'unica vera vittoria ottenuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nella sua non sempre gloriosa carriera. Ebbene, se l'accordo Oms impone ai Paesi che lo sottoscrivono, tra le altre misure, di tappezzare di drammatiche immagini anti-fumo almeno il 50% dei pacchetti di sigarette, l'Uruguay ha deciso di "strafare": qui i produttori sono obbligati a ricoprire con fotografie molto esplicite ben l'80% delle confezioni. Per non parlare del divieto - che l'Uruguay ha imposto per primo al mondo - di distribuire varianti dello stesso prodotto: le versioni "light" o "mild" e via dicendo di uno stesso brand, sono state messe al bando per evitare di trarre in inganno i fumatori con messaggi fuorvianti su formulazioni apparentemente meno dannose.

Ce n'era abbastanza perché il gigante reagisse. Non che l'Uruguay sia il più accanito al mondo, nella guerra senza quartiere al fumo: in Thailandia e Australia - come rivela l'ampia survey appena pubblicata dall'autorevole Canadian Cancer Society (il Canada è un veterano delle politiche smoke-free) - le immagini-shock arrivano a coprire rispettivamente l'85% e l'82,5% del packaging. Terzi al mondo per intransigenza, dunque, ma primi nel mirino di Philip Morris. La multinazionale - affermano i difensori dell'Uruguay - avrebbe deciso di dare una lezione esemplare al piccolo Davide che ha scelto di ribellarsi al Golia del tabacco. Se dovesse vincere, si creerebbe un precedente importante, capace di dissuadere altri Paesi dalla lotta dura e pura alla nicotina.
La posta in gioco è notevole: i produttori sono consapevoli che ogni pacchetto di sigarette è un vero e proprio biglietto da visita del loro marchio, con cui tradizionalmente - peraltro - veicolano messaggi di successo nella vita e nella carriera. Messaggi che cozzano con le foto di bocche devastate dal cancro, di radiografie impietose di polmoni anneriti, di bimbi imbavagliati da maschere antigas, di piedi mangiati dalla gangrena che campeggiano sulle confezioni vendute in Uruguay. Immagini di enorme impatto che - è ormai provato - valgono più di mille parole, soprattutto in Paesi dove buona parte della popolazione è ancora analfabeta. E se in Uruguay prima della "cura" fumava il 45% della popolazione, oggi grazie al massiccio intervento legislativo anti-fumo la percentuale è crollata al 23%. Al 13% tra i giovani, che continuano ad abbandonare il ricorso alle bionde.

A febbraio 2010, innervosite dalla perseveranza e, soprattutto, dal drastico calo dei consumi di sigarette registrato in Uruguay, tre affiliate di Philip Morris International hanno dunque avviato un'azione legale coi fiocchi presso l'Icsid, l'International Centre for the Settlement of Investment Disputes - istituzione della Banca Mondiale con sede a Washington deputata a risolvere le controversie sugli investimenti - con la motivazione che il piccolo Stato avrebbe violato con le sue leggi restrittive sul fumo un trattato di investimento bilaterale con la Svizzera, dove (a Losanna) Philip Morris ha la propria sede. Tre anni e mezzo dopo, la disputa entra nel vivo. Proprio a Washington, presso l'Icsid, i legali del Paese sudamericano hanno appena presentato la memoria difensiva nell'arbitrato internazionale. Memoria in cui - come ricorda Paul Reichler, senior partner di Foley Hoag Llp - l'Uruguay mette sul piatto il «dovere, in capo a ogni governo, di proteggere la salute pubblica dalla minaccia eccezionale rappresentata dal consumo di tabacco, salvaguardando i diritti umani alla salute e alla vita».

Nel frattempo, a Mosca si sono chiusi i lavori della sesta conferenza tra i Paesi firmatari della Framework Convention on Tobacco Control. L'accordo Oms del 2003 entrato in vigore a inizio 2005, insomma, che ha dato il "la" alle leggi uruguaiane. Una vetrina ideale, quella russa, per la ministra della Salute di Montevideo Susana Muniz, che ha puntato a incassare un rinnovato supporto in un momento cruciale della disputa. Dalla sua, ha la solidarietà dell'Organizzazione panamericana della sanità (Paho) così come della direttrice generale Oms Margareth Chan. Per non parlare degli studi pubblicati su Lancet, che registrano tra l'altro un crollo dei consumi dell'8% tra i giovanissimi in età scolare e un netto miglioramento della salute di neonati figli di mamme smoke-free.

Sul piano morale l'Uruguay avrebbe quindi stravinto. Se non fosse che l'attribuzione dell'arbitrato al Centre for settlement of investment disputes ha segnato un punto importantissimo a favore di Philip Morris. «Si inscrive infatti - spiega Matt Mayer, presidente della Ong Usa Campaign for Tobacco-Free Kids - in un trend che vede grandi multinazionali del tabacco servirsi di accordi commerciali internazionali e di tribunali per impedire ai governi di adottare efficaci e comprovate misure per ridurre il consumo di tabacco».

Philip Morris vs Uruguay è quindi una causa-pilota. La vittoria dell'una o dell'altra parte influenzerà decisamente la giurisprudenza internazionale e soprattutto le scelte di politica sanitaria nel mondo. Con buona pace dei dati schiaccianti, secondo cui il fumo uccide ogni anno sei milioni di persone, che diventeranno 8 milioni nel 2030. Concentrati per lo più (80%) nei Paesi in via di sviluppo: i più fragili, appunto, sia sotto il profilo della salute sia per politiche sanitarie, sia per capacità di contrastare le strategie delle grandi multinazionali.
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