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Ricetta «slow medicine» per fare meglio senza dover fare necessariamente di più

di Domenico Scibetta (direttore sanitario Ulss 16 Padova)

L'elogio della lentezza, che è poi la voglia di recuperare il senso dell'umano, di riportare l'incontro, l'ascolto, il colloquio, il confronto, al centro della Medicina. Chiamata a rallentare il passo e, nello stesso tempo, ad accelerarlo per farsi contemporaneità d'azione, operosità pensata, ragionata, elaborata per saper meglio rispondere alle domande di salute dei cittadini. Medicina sobria, rispettosa e giusta, basata sulla sostenibilità, l'equità dei sistemi sanitari, l'attenzione alla persona e all'ambiente, promotrice di umanizzazione della cura, di buone pratiche di diagnosi e terapia, di riduzione degli sprechi e di uso appropriato delle risorse. Medicina lenta perché riflessiva cioè attenta alla formazione e alla prevenzione, che rifugge l'autoreferenzialità perché valorizza il concetto di rete, e contemporaneamente Medicina scattante, dinamica e sagace perché la sua essenza di ricerca d'equilibrio, che evita gli eccessi, è esattamente quello di cui la sanità ha bisogno per riportare il paziente al centro della pratica clinica. Centralità che si nutre di empatia.

"Questo esame è davvero necessario? Quali rischi comporta? Esistono delle alternative? Quanto costa? Non eseguirlo, cosa comporterebbe?" Cinque domande che ogni paziente dovrebbe porre al proprio medico, ma anche cinque domande che ogni medico dovrebbe porre a se stesso e alla propria competenza prima di procedere alla prescrizione. Il rischio è ingozzare la Medicina, fino a renderla straripante, inutilmente over-size. Del resto la forte pressione del mercato dell'innovazione unita alla sempre più diffusa abitudine degli assistiti a contattare gli avvocati, con il conseguente arroccamento della classe medica su posizioni di medicina difensiva per evitare contenzioni di natura legale, hanno creato una bulimia diagnostica e terapeutica capace di trasformare sempre più spesso il cittadino in mero consumatore di servizi sanitari. A volte diffidente, spesso disinformato, questo utente affamato di salute, la cui asticella è spostata sempre più in alto, finisce per ingrossare le fila di un deleterio circolo vizioso. Si realizza così il sogno del protagonista del testo teatrale di J. Romains "Knoch ovvero il trionfo della medicina" - di dare "finalmente" ai sani la dignità di malati. Come salvarsi? Decelerando il passo e concedendosi il lusso di osservare il panorama, quindi di agire in base a quel che la realtà chiede. Né più, né meno.

Purtroppo la corsa al crescente consumismo sanitario contribuisce a mettere a dura prova la sostenibilità del sistema, soffrendo ormai la sanità di tagli trasversali che penalizzano soprattutto i sistemi sanitari virtuosi, come quello Veneto, che hanno raggiunto elevati livelli di efficienza, economicità e gradimento da parte dei cittadini. Perseguire quindi l'appropriatezza delle cure è un obiettivo che le Ulss del Veneto da tempo perseguono e che può trovare nella Slow Medicine, la Medicina riflessiva appunto, la sintesi perfetta.

Il termine "Slow Medicine", che richiama alla mente lo "Slow Food", vuol concentrarsi (come succede a tavola) sulla qualità più che sulla quantità. Troppe prestazioni, troppi esami o troppi farmaci, oltre a non essere necessari per il paziente, possono rivelarsi dannosi. Da queste riflessioni ha preso l'abbrivio la campagna "Choosing wisely", ovvero "scegliere saggiamente": avviata negli Usa all'inizio degli anni Duemila, sollecita le realtà sanitarie a indicare i cinque test diagnostici, trattamenti o servizi di grande consumo che non hanno dimostrato con sufficiente evidenza scientifica di essere utili per la salute dei malati e di procurare, talvolta, più danno che beneficio oltre a destabilizzare, economicamente, il sistema.

Negli Stati Uniti è valutato che l'ammontare delle prestazioni inutili tocchi il 30% della spesa sanitaria, secondo l'Organizzazione mondale della sanità la percentuale oscilla tra il 20 e il 40%. E da noi? L'Ulss 16 di Padova che, con i suoi 495.000 assistiti e i 7,5 milioni di prestazioni ambulatoriali erogate l'anno, è la più grande e "laboriosa" del Veneto, ha posto tra i suoi scopi prioritari proprio il perseguimento dell'appropriatezza clinico-organizzativa e l'umanizzazione delle cure.

"Fare di più non significa fare meglio" è il progetto che Slow Medicine ha deciso di lanciare in Italia e che la Ulss di Padova, prima nel Veneto, ha inteso adottare. Lo start dell'iniziativa, un convegno tenuto questo febbraio nella città del Santo che ha visto protagonisti i fondatori e i sostenitori del movimento - Andrea Gardini, Antonio Bonaldi, Sandra Vernero, Marco Bobbio – affiancati da esperti di diverse discipline mediche e referenti di organizzazioni di pazienti e cittadini-consumatori. I relatori hanno condiviso esperienze "sobrie, rispettose e giuste" realizzate in varie parti della penisola, e in molteplici settori, dalla cardiologia alla neurologia, dalla medicina generale a quella di laboratorio. In Ulss 16, per diventare "slow", coinvolgeremo specialisti ospedalieri e territoriali: come primo step, assegneremo alle Unità operative dei nostri presidi ospedalieri, quale obiettivo di budget, l'identificazione per ogni singolo reparto delle cinque pratiche di largo utilizzo che non portano alcun valore aggiunto per la salute del paziente in quanto non concorrono a individuare o modificare la strategia terapeutica. A consuntivo, dopo un anno di lavoro, monitoreremo i risultati di questo approccio volutamente lento, non precipitoso alle cure.
Del resto, in un momento storico in cui risulta fondamentale perseguire la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale maneggiando le finanze con l'oculatezza e il buon senso del buon padre di famiglia, iniziative come questa - che vogliono ottimizzare le risorse migliorando la qualità delle risposte sanitarie rese ai malati - offrono un'equa alternativa ai tagli indiscriminati. Perché "scegliere saggiamente", si può. Adottando l'andamento lento, con brio.